Il
fondo sovrano gestito dal governo vale oltre 800 miliardi grazie al
petrolio. È azionista di 9mila società, ha il 2% delle azioni mondiali e
ogni cittadino ha un credito di 160mila euro
Da Oslo – Lo chiamano sparegris , salvadanaio. Contiene circa 820
miliardi di euro; circa perché domani sarà già cresciuto di varie
centinaia di milioni, non riesci a stargli dietro. Un contatore che
galoppa, come quelli che ospitiamo malvolentieri a casa nostra, solo che
i norvegesi questo lo controllano sul sito del ministero delle Finanze
per tirarsi su il morale nelle giornate uggiose.
È il Norwegian government pension fund global, più comunemente Petroleum
fund, il fondo sovrano più grande del mondo, istituito con i proventi
statali del petrolio, un salvadanaio per le generazioni a venire, una
macchina da soldi che marcerà anche se il resto del mondo dovesse andare
in malora e soprattutto in previsione del giorno in cui verrà estratto
l’ultimo barile di Brent.
Un patrimonio pari al Pil dello Stato di New York che garantisce ai
cinque milioni di norvegesi un credito di 160mila euro ciascuno, un dato
che non si può crudelmente non paragonare ai circa 40mila euro di
debito che accompagnano invece la nascita di ogni italiano.
Eccola dunque l’eccezione di questo Emirato del Nord che ha sfatato,
unico tra i grandi Paesi produttori, la maledizione del petrolio: un
pugno di nababbi e il resto della popolazione che resta all’asciutto,
magari tenuta a bada con qualche buono benzina. «Non c’è nulla di
ideologico, e non c’entra la socialdemocrazia – dice Øystein Noreng,
professore alla Norwegian business school -.
Rispecchia piuttosto la cultura dell’equità sociale e del risparmio che
arriva dal senso comunitario contadino. La ricchezza che proviene dalla
natura è di tutti».
E
il viceministro delle Finanze, Paal Bjørnestad, va addirittura indietro
all’alba dei tempi: «Siamo stati fortunati, noi estraiamo dal suolo
norvegese una ricchezza che si è formata centinaia di milioni di anni
fa, ma un giorno il petrolio finirà e noi dobbiamo garantire che di
questa fortuna possano beneficiarne le generazioni a venire». Così
vent’anni fa si decise di istituire il fondo, investendo interamente
all’estero rendite dai diritti e dalle tassazioni sulle estrazioni: 60
per cento in azioni, 35 per cento in titoli a tasso fisso e il 5 per
cento in proprietà immobiliari. Oggi i numeri sono spaventosi: il fondo è
azionista in novemila società quotate nel mondo, significa che il due
per cento delle azioni globali sono intestate alla Norvegia, pezzi
pregiati, come la torre di Time Square a New York o Regent Street a
Londra, appartengono a Ole Nordman, il Mario Rossi norvegese.
«Volevamo evitare di contrarre il male olandese», dice il ministro. Nel
gergo della finanza si chiama dutch disease quando accade – come in
Olanda negli anni Settanta con il gas – che la ricchezza prodotta dalle
risorse naturali e reinvestita nel Paese provoca un cortocircuito
economico, deindustrializzazione e depressione generale. «Cerchiamo il
massimo ritorno con il minimo rischio, come un buon padre di famiglia»,
spiega Paal nel suo studio al ministero, spartano quanto una canonica
luterana.
Ovvio che il fondo non è un bancomat dove chiunque può estrarre dalla
sua quota, ma parte degli interessi vengono già spesi oggi: «Il governo è
autorizzato a utilizzare fino al 4 per cento del guadagno prodotto
dagli investimenti per coprire il deficit di bilancio, che significa una
grande quantità di denaro a disposizione dell’attuale governo perché il
fondo ha raddoppiato il suo valore in quattro anni… Stiamo parlando del
15 per cento del budget norvegese garantito e che non è finanziato
dalle tasse. Tuttavia il valore complessivo del fondo rimane intatto per
sempre. Tutto è trasparente, ogni decisione controllabile da tutti sul
sito». E proprio l’ultimo rapporto indica come il fondo sia tornato a
investire pesantemente in Italia: una quindicina di miliardi di euro,
tre miliardi di euro accumulati nell’ultimo triennio con un forte
recupero di interesse per i nostri titoli di Stato ma non solo:
l’acquisto di azioni sfiora gli otto miliardi e riguarda oltre 130
società. Mentre il viceministro fa sapere che si sta valutando
attentamente il mercato immobiliare, soprattutto a Milano.
Stavanger, città sulla costa occidentale, esprime il suo orgoglio e la
sua storia attraverso due musei. Uno, nella parte vecchia, casette
bianche con i ciclamini e l’erica sui balconi, racconta un villaggio di
pescatori di aringhe e di piccole imprese per la produzione delle
sardine in scatola: la bionda Katrine guida l’ospite con slancio, spiega
del boom della produzione per i soldati di tutti i fronti durante le
guerre mondiali, mostra piena d’orgoglio le sale dove gli uomini
saldavano una a una le scatolette di latta e poi le prime macchine a
vapore che ne sfornavano mille all’ora, quindi le foto delle donne che
salavano e affumicavano il pesce. L’altro museo celebra invece il
petrolio, scoperto dagli americani a duecento miglia dalla costa nel
Natale del 1969. Il Norsk Oljemuseum, con al centro il modello della
prima piattaforma, l’Ekofisk, simboleggia la nuova Stavanger, diventata
la Houston d’Europa, sede di tutte le multinazionali legate
all’estrazione, città con il costo della vita più alto al mondo, venti
euro per un hamburger, monolocali da un milione di euro.
«Siamo certamente un’eccezione nella gestione di tanta ricchezza, la
Norvegia con il fondo sovrano, investendo tutto all’estero, ha trovato
il modo di vivere come se il petrolio non ci fosse, ma ovviamente non è
così», dice il direttore Finn E. Krogh, che è anche politologo. Finn è
preoccupato per una generazione che si adagia nell’ovatta, viziata da
papà Stato e da mamma Statoil, la compagnia petrolifera pubblica che ha
in mano l’80 per cento delle operazioni. «I giovani norvegesi vivono
nella ricchezza, crescono in famiglie ricche, frequentano buone scuole…
diventano pigri, ignorano la vita vera, i sacrifici e potrebbero non
sapersela cavare da soli. Forse la perdita di posti di lavoro che sta
causando il crollo del prezzo del petrolio potrebbe dare loro la
sveglia».
Secondo Arild Moe del Nansens institute, centro di studi strategici
legati alle politiche energetiche, «l’industria petrolifera ha alzato
troppo il costo della vita e i costi generali nel Paese, compromettendo
la concorrenza di altre industrie. E poiché i prezzi di petrolio e gas
continueranno a essere bassi per molto tempo, dobbiamo cogliere
l’opportunità di incentivare industrie alternative, diversificare gli
investimenti. A differenza di altri Paesi petroliferi, noi possiamo
permettercelo grazie al fondo sovrano». Chissà che non arrivi prima del
previsto il momento di prendere il martello e rompere lo sparegris , il
salvadanaio megagalattico.
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