“Quando
ci guardiamo allo specchio, l’unica cosa che non vogliamo vedere è un
essere umano qualunque. Vorremmo vedere una persona speciale. Che ne
siamo coscienti oppure no, non siamo affatto contenti di vedere un
essere umano qualunque con le sue nevrosi, contrarietà e problemi.
Vogliamo vedere una persona felice, ma vediamo qualcuno che è in
difficoltà. Vogliamo credere di essere compassionevoli, ma ci scopriamo
egoisti.
Ci
piacerebbe essere eleganti, ma l’arroganza ci rende sgraziati. E invece
di un individuo forte e immortale, vediamo qualcuno che è vulnerabile
alle quattro correnti di nascita, vecchiaia, malattia e morte. Il
conflitto tra quello che vorremmo vedere è fonte di enorme dolore. A
imprigionarci in questo dolore è il nostro sentirci speciali, in altri
termini la presunzione. La presunzione è quel fondamentale “attaccamento
all’Io, io, io, io, me, me, me, mio, mio, mio” che colora la totalità
della nostra esperienza.
Se
guardiamo attentamente, noteremo una spiccata componente di presunzione
in tutto ciò che pensiamo, diciamo e facciamo. Che posso fare per stare
bene? Che penseranno gli altri? Che ci guadagno? Che ci perdo? Tutte
domande radicate nella presunzione. Anche il sentimento di non essere
all’altezza di chi ci crediamo di dover essere è una forma di
presunzione.
Ci
piace vederci forti e padroni di noi, ma siamo più simili a un fragile
guscio che si rompe per un nonnulla. Quindi ci sentiamo profondamente
vulnerabili, nel senso negativo del termine. Questo io vulnerabile
richiede protezione, corazze, concentrazione di forze e pareti
divisorie. Il risultato è una condizione di penosa prigionia. Abbiamo
sempre più paura di rilassarci con le cose come sono, e dubitiamo sempre
di più che le cose vadano come piacerebbe a noi.
Ci
vuole coraggio per andare oltre la presunzione e vedere chi siamo
veramente, ma è la strada che dobbiamo percorrere: questo processo
inizia con l’autoriflessione. Il grande pandit indiano Aryadeva disse
che il semplice mettere in dubbio che le cose siano come appaiono può
scuotere alle fondamenta l’attaccamento abituale. Questo spirito di
indagine è il punto di partenza dell’autoriflessione. Potrebbe essere
che questo io così compatto si riveli diverso da come appare?
Abbiamo
proprio bisogno di tenere in piedi la realtà, e possiamo farlo davvero?
C’è vita oltre l’orizzonte della presunzione? Domande come queste sono
il punto d’accesso all’investigazione della causa del nostro dolore. La
pratica dell’autoriflessione richiede di prendere le distanze e
osservare la nostra esperienza senza soccombere alla forza trainante
della mente abituale. Così facendo siamo in condizione di guardare senza
giudizi qualunque cosa si manifesti, e ciò direttamente contro la
natura della nostra presunzione.
L’autoriflessione
è il filo conduttore che collega le diverse tradizioni e lignaggi
buddisti, inoltre ci consente di varcare i confini della pratica
formale. Lo spirito di indagine dell’autoriflessione si può applicare in
ogni situazione, ogni momento. L’autoriflessione è un atteggiamento, un
approccio e un tirocinio. In parole povere è fare della pratica
qualcosa di autentico e valido per noi personalmente.
Se
guardiamo la nostra mente abituale senza falsità e senza giudizi,
vediamo oltre i suoi limiti chi siamo veramente. Oltre l’io e quello che
vuole e che non vuole, oltre l’io che respinge e che pretende
continuamente, c’è la nostra vera natura, il nostro vero volto. È il
volto della nostra condizione naturale, libera dallo sforzo di diventare
quello che non siamo. È il volto di un essere potenzialmente realizzato
che dispone di saggezza, qualità e coraggio illimitati.
Vedendo
tanto il nostro potenziale più profondo quanto i nostri limiti,
cominciamo a capire la causa della nostra sofferenza e a fare qualcosa
per porvi rimedio. Quando pratichiamo l’autoriflessione ci assumiamo la
responsabilità della nostra liberazione. Questa via intransigente
richiede uno spirito coraggioso e impavido. Trascendere l’ordinaria
nozione di sé porta direttamente alla verità della nostra essenza di
buddha, al nostro vero volto, e alla libertà dalla sofferenza.
Aderire
all’ordinaria nozione di sé o io, è la fonte di tutto il dolore e la
confusione che ci abitano. Il paradosso è che quando cerchiamo questo
“io” tanto amato e protetto, non troviamo nulla. L’io è sfuggente e
inafferrabile. Quando diciamo: “Sono vecchio” l’io diventa il corpo.
Quando diciamo: “Il mio corpo” l’io diventa il proprietario del corpo.
Quando diciamo: “Sono stanco” l’io si identifica con le sensazioni
fisiche ed emotive. L’io è le nostre percezioni quando diciamo: “Io
vedo,” e i nostri pensieri quando diciamo: “Io penso.”
Dal
momento che non è possibile trovarlo all’interno o al di fuori di
queste componenti, si potrebbe concludere che l’io sia ciò che è
cosciente di tutto questo, il conoscitore o mente. Ma se cerchiamo la
mente, non troviamo nulla che abbia forma, colore o aspetto. Questa
mente che identifichiamo con noi stessi, quella che si potrebbe definire
la mente egocentrica, controlla tutte le nostre azioni. Eppure nessuno
l’ha mai vista, il che è un po’ inquietante, come avere in casa un
fantasma tuttofare. […]
Lo
strano è che non ci poniamo la domanda. Diamo per scontato che debba
esserci qualcuno o qualcosa. Ma fino a oggi la nostra vita è stata
gestita da un fantasma, ed è venuto il momento di dire basta. Da un lato
la mente egocentrica ci ha servito, ma non ha fatto i nostri interessi.
Ci ha adescato nella sofferenza del samara e ci ha schiavizzato. Se
esaminiamo il rapporto ‘ schiavistico’ che abbiamo con la mente
egocentrica, ci accorgiamo di come sa essere insistente e fraudolenta,
istigandoci a fare cose che sortiscono conseguenze indesiderabili.
Se
volete smettere di essere schiavi di un fantasma, dovete intimare alla
mente egocentrica di mostrarsi. Nessun fantasma che si rispetti apparirà
su richiesta! Fatelo specialmente quando sentire che sta avendo la
meglio, quando vi minaccia, vi intimidisce o vi tiranneggia. Raddrizzate
la schiena e sfidatela. Non siate ingenui, vaghi o arrendevoli. Quando
sfidate la mente egocentrica siate decisi ma pacati, acuti, ma non
aggressivi. Quando nessuna mente uscirà fuori per dire: “Eccomi!” la
mente egocentrica comincerà a perdere la sua presa su di voi e il peso
dei problemi si allevierà. Verificate di persona.
Quando
la investighiamo direttamente, la mente egocentrica si rivela per
quella che è: l’assenza di tutto ciò che crediamo che sia. Smascherare
questa mente, questo io all’apparenza così compatto, è assolutamente
possibile. Ma, a questo punto, cosa resta? Resta una consapevolezza
aperta, intelligente, libera da un io da amare e proteggere. È la mente
della saggezza primordiale che tutti gli esseri possiedono. Rilassarsi
in questa scoperta è vera meditazione, e la vera meditazione porta alla
comprensione suprema e alla libertà dalla sofferenza.
Cercare
la mente egocentrica è molto importante. È l’unico modo per accertarsi
che non può essere trovata. E se non è possibile trovarla, non è
possibile neppure trovare un io: come faremo, allora, a prendere i
nostri pensieri, le nostre emozioni ed esperienze in modo tanto
personale? […] Possiamo scoprire la bellezza della nostra natura
interiore quando smettiamo di manipolare tutto ciò che incontriamo allo
scopo di rafforzare un’identità personale. Questo è l’approccio alla
vita del praticante.
A
pensarci, come è possibile praticare l’autoriflessione quando ci si
afferra a un io? Tutto diventa personale: il nostro dolore, la nostra
rabbia, i nostri difetti. Quando pensieri ed emozioni sul piano
personale, ci tormentano. Osservate i pensieri e le emozioni in questo
modo è come cacciare il naso in qualcosa di maleodorante: a che serve,
se non ad aumentare il dolore? Non è il tipo di osservazione di cui
stiamo parlando.
La
prospettiva dell’assenza dell’io ci permette di gustare qualunque cosa
emerga dalla coscienza. Prendiamo atto che tutto ciò che emerge è una
conseguenza delle nostre azioni passate, o karma, ma non si identifica
con noi. Pensieri ed emozioni sogeranno sempre. Lo scopo della pratica
non è quello di sbarazzarsene. Non si può mettere fine ai pensieri
proprio come non si può mettere fine alle circostanze mondane
apparentemente favorevoli o avverse.
Quello
che si può fare, però, è accoglierli e lavorarci sopra. A un certo
livello, non sono altro che sensazioni. Quando non li solidifichiamo o
giudichiamo come buoni o cattivi, giusti o sbagliati, favorevoli o
sfavorevoli, possiamo metterli a frutto per progredire sul sentiero.
Mettiamo a frutto pensieri ed emozioni guardandoli emergere e
dissolversi. Così facendo, ne vediamo l’insostanzialità. Quando siamo
capaci di vederli in trasparenza, ci rendiamo conto che non hanno potere
di legarci, sviarci o distorcere il nostro senso della realtà. E non ci
aspettiamo più di vederli cessare.
L’aspettativa
stessa che pensieri ed emozioni debbano cessare è un fraintendimento.
Questo fraintendimento si può superare con la meditazione. Nei sutra si
dice: “A che serve il concime, se non a fertilizzare le piantagioni
delle canne da zucchero?” Analogamente potremmo dire: “A che servono
pensieri ed emozioni (di fatto tutte le nostre esperienze), se non a
nutrire la nostra comprensione?” Quello che ci impedisce di farne buon
uso sono le paure e le reazioni derivanti dalla nostra presunzione.
Perciò il Buddha ci esortava a lasciare queste cose a se stesse.
Senza
farvi intimorire o cercare di controllare alcunché, lasciate che tutto
si manifesti spontaneamente senza interferire. Quando la mente
egocentrica diventa trasparente per effetto della meditazione, non c’è
più motivo di temerla. Ciò riduce di molto la nostra sofferenza. Si può
arrivare a nutrire una vera e propria passione per la contemplazione
della mente in tutti i suoi aspetti. Questo è l’atteggiamento che sta al
cuore dell’autoriflessione.”
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