(Michel de Montaigne, Saggi: Apologia di Raimondo Sebond, 1580.)
All’interno del vasto panorama filosofico rinascimentale, riveste una particolare importanza il pensiero di Michel de Montaigne (1553-1592). I Saggi (1580), la sua opera più celebre, sono una tappa fondamentale di quel processo di rivalutazione dell’uomo caratteristico dell’epoca umanistica, già analizzato dal sottoscritto nell’articolo Il concetto di uomo nel pensiero filosofico rinascimentale.
I Saggi di Montaigne si pongono l’obiettivo di studiare, e quindi scoprire, le esperienze presenti in testi di autori antichi e moderni, per metterle in relazione con le proprie. Il pensatore segue in questo modo un metodo del tutto autobiografico: attraverso le proprie vicende, ed il paragone con quelle di altri autori indispensabili, egli vuole pervenire alla comprensione ed alla conoscenza della natura umana.
Tra le esperienze passate, secondo Montaigne rivestono grande importanza
lo stoicismo e lo scetticismo, tendenze filosofiche attraverso le quali
l’individuo è riuscito a raggiungere la propria libertà spirituale. Lo
stoicismo lo ha infatti svincolato dalla materialità, mentre lo
scetticismo lo ha liberato dall’arrogante superbia di sapere inducendolo
all’indagine ed alla ricerca ...
Pieter Bruegel the Elder - Superbia (Pride)
Nella sezione dei Saggi intitolata Apologia di Raimondo Sebond, Montaigne mostra un’idea di uomo del tutto differente da quella comune e più diffusa nel Rinascimento, esposta da Pico della Mirandola nel già citato Dialogo sulla dignità dell’uomo. Il filosofo francese descrive l’essere umano come una «creatura miserabile e infelice», anticipando le teorie moderne che presto interverranno a ridimensionare, se non abbattere totalmente, l’antropocentrismo umanistico.
Vi proponiamo un passo determinante di questo aspetto del pensiero montaigniano, estratto proprio dall’Apologia di Raimondo Sebond, contenuta nei Saggi.
Consideriamo dunque per il momento l’uomo solo, senza soccorsi esterni, armato solamente delle proprie armi e sfornito della grazia e della rivelazione divina, che sono tutto il suo onore, la sua forza, il fondamento del suo stesso essere. Vediamo quanta stabilità ha, con questo bell’equipaggiamento. Mi faccia capire, con la forza del suo discorso, su quali fondamenti ha costruito i grandi vantaggi che pensa di avere rispetto alle altre creature. Chi lo ha persuaso che questa meravigliosa oscillazione della volta celeste, la luce eterna di queste fiaccole che ruotano tanto fieramente sopra il suo capo, i movimenti spaventosi di questo mare infinito siano stati creati e siano continuati per tanti secoli per la sua comodità, e per servire a lui? È possibile immaginare qualcosa di tanto ridicolo quanto il fatto che questa creatura miserabile e infelice, che non è neppur signora di se stessa, esposta alle offese di tutte le cose, si dica padrona e regina dell’universo, del quale non è in suo potere conoscere la più piccola parte, e tanto meno comandarla? […]
La presunzione è la nostra malattia naturale e originale.
Tra tutte le creature l’uomo è la più fragile e la più soggetta alle calamità; nello stesso tempo è la più orgogliosa. Egli si sente e si vede situato qui, tra la melma e lo sterco del mondo, legato e inchiodato alla parte peggiore, più morta e stagnante dell’universo, all’ultimo livello del creato, il più lontano dalla volta celeste, con gli animali della peggior condizione; e va con l’immaginazione a piantarsi al di sopra del cerchio della luna; a mettere il cielo sotto i propri piedi. Con la vanità di questa stessa immaginazione egli si rende eguale a Dio, si attribuisce qualità divine, da se stesso si elegge e si separa dalla calca delle altre creature, taglia le parti degli animali, suoi fratelli e compagni, e distribuisce loro la porzione di facoltà e di forze che a lui sembra opportuna. Come fa a conoscere, con lo sforzo della sua intelligenza, i moti interni e segreti degli animali? Attraverso quale confronto tra noi e loro deduce la stupidità che attribuisce ad essi?
Da O. Pompeo Faracovi, Il pensiero libertino, Loescher, Torino 1977, pp. 24-25.
Una rappresentazione della Torre di babele
Da parole tanto forti è possibile individuare con facilità lo scarto che separa Montaigne dagli altri pensatori rinascimentali, ed in particolare da Pico della Mirandola. Il filosofo francese apre, dopo una rivalutazione ed esaltazione dell’uomo caratteristica dell’Umanesimo, una falla che preannuncia la crisi alla quale si assisterà con il progredire del pensiero filosofico.
L’uomo è un essere naturalmente contraddittorio, superbo eppure caduco, presuntuoso eppure mortale. Secondo quale convinzione egli può innalzarsi a padrone del mondo? Montaigne invita ad una mediazione tra il buio medievale e la celebrazione rinascimentale, necessaria affinché l’individuo acquisti il più sinceramente possibile il dominio di se stesso.
Queste pagine sono una critica al radicale antropocentrismo umanistico dilagante in quell’epoca. Montaigne auspica un atteggiamento che sia più scettico e meno megalomane, perché l’uomo che «si rende eguale a Dio», è in realtà una «creatura miserabile e infelice», aggiungo io vacua ed annoiata, che deve possedere la coscienza di ciò per poter vivere con dignità i pochi anni che gli sono concessi.
Attualizzando il passo, leggendolo ed interpretandolo in chiave contemporanea, si può notare come la presunzione umana di cui parla il filosofo francese, considerata a ragione «la nostra malattia naturale e originale», nel nuovo millennio, e già nel Novecento, sia giunta all’apice, generando ovunque distruzione, ed un progresso tecnologico che ha impoverito l’esistenza dell’individuo. Un individuo che, perduto dapprima nella società di massa, oggi chissà in cosa, ha smarrito la sua libertà, e dunque se stesso.
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